Gigi Soldano, a sport soul photographer

NewsJanuary 26, 2022

Gigi Soldano è uno dei fotografi più noti nel panorama della MotoGP e delle due ruote a
motore. Da trent’anni impegnato a immortalare gare e piloti del Motomondiale è stato anche
un pioniere della Parigi Dakar, raccontando con le sue imprese e le sue immagini ben 25
edizioni.

Gigi Soldano è uno dei fotografi più noti nel panorama della MotoGP e delle due ruote a
motore. Da trent’anni impegnato a immortalare gare e piloti del Motomondiale è stato anche
un pioniere della Parigi Dakar, raccontando con le sue imprese e le sue immagini ben 25
edizioni.
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“Mio padre era un ufficiale dei Carabinieri, ed è stato proprio il suo mestiere a portarmi qui a
Varese. Sono nato a Bari, ho vissuto qualche anno in Sicilia per poi spostarmi in Valtellina,
sempre al seguito del mio babbo, nel Pavese e infine nel Varesotto.
Da ragazzo non avevo puntato le mie carte su quella che stava diventando la mia passione,
ovvero la fotografia. Mi iscrissi all’università laureandomi in Sociologia e, con quel titolo in
tasca, iniziai la mia carriera come assistente al direttore del personale in un’azienda
metalmeccanica. Una vita normale, un lavoro normale, una carriera come tante.
La sliding door che ha cambiato per sempre la mia vita ha un nome e si chiama “cassa
integrazione”. Al ritorno in ufficio dopo un anno di leva militare mi ritrovai con l’azienda in
crisi e prossima al fallimento.  Ho voluto cogliere quel momento come un segnale,
l’opportunità che non dovevo farmi sfuggire per far diventare la mia passione per la
fotografia un vero e proprio mestiere. Il mio mestiere.
Con i soldi della liquidazione comprai l’attrezzatura indispensabile e aprii il mio studio
fotografico a Varese, cosa forse irripetibile ai giorni nostri. Non avevo un tema di riferimento,
fotografavo quello che mi capitava in base alle richieste.
La mia carriera nello sport, e in particolare nelle due ruote, è iniziata bussando alla porta del
mio “vicino di casa”, la Cagiva dei fratelli Castiglioni. Per loro iniziai a seguire i campionati di
motocross scattando e filmando con la mia prima cinepresa da 16 mm. Il mio lavoro piacque
al punto tale da attirare l’attenzione di alcune agenzie che gravitavano intorno al mondo
della comunicazione sportiva. Una di queste, la Pool Communication, incaricata di creare
contenuti per la trasmissione Gran Prix di Italia 1, mi chiese di collaborare. Mi trovai
catapultato in una realtà per me nuova e affascinante che mi ha permesso di lavorare e
collaborare spalla a spalla con i migliori addetti ai lavori di allora e mostri sacri ancora oggi
come Paolo Beltramo, Giorgio Terruzzi e Nico Cereghini.
Il passaggio dal motocross alla pista era così compiuto. Ricordo ancora il primo Gran Premio
a cui partecipai come cineoperatore. Circuito di Assen, 1983. Il Gran Premio rimasto nella
memoria collettiva per il gravissimo incidente di Franco Uncini.

Grazie alla Pool Communication ho avuto il privilegio di poter essere al seguito anche
della Parigi Dakar, nell’epoca in cui questa gara aveva tutti i connotati epici di un’avventura
ai limiti dell’impossibile, caratteristica andata via via scemando nelle ultime edizioni. Alla mia
prima Dakar, nel 1984, sono poi seguite altre ventiquattro edizioni. In quegli anni non
esistevano i cellulari, le trasmissioni satellitari erano un’utopia, persino portare a casa il
proprio lavoro sul campo diventava un’impresa assai complicata.
È stata una sfida che mi ha permesso di fare al meglio quello che adoro in un territorio unico,
selvaggio e incredibile come quello africano. Quell’epopea l’ho vissuta appieno. Bisognava
barcamenarsi non solo nel realizzare il proprio lavoro ma anche nel come muoversi, come e
cosa mangiare, dove dormire, come poter gestire il quotidiano di una gara itinerante in
continuo movimento il mezzo al deserto.

Si partiva al mattino senza sapere cosa avresti trovato lungo la pista o il tempo che ci avresti
messo, il tutto con un solo strumento a disposizione, il roadbook, che avevi avuto appena il
tempo di comprendere. Una delle difficoltà più grandi, poi, era l’invio in Europa dei rullini
fotografici in un’epoca dove il digitale era ancora di là da venire.  Così, all’arrivo al bivacco la
sera, scattava la ricerca di un pilota da rimpatriare a cui consegnare i rullini con la preghiera
di portarli con sé in Europa. E dove poter trovare qualcuno in procinto di tornare a casa? Ma
in infermeria naturalmente!
Oggi il fascino della Dakar è venuto decisamente meno. Non solo per il cambio di itinerario
ma anche, e soprattutto, per la perdita dello spirito pionieristico che animava piloti e
partecipanti nelle prime edizioni, prima dell’avvento dei grandi budget e dei team ufficiali
con sponsor munifici. E anche prima dell’arrivo del digitale e di un photo editor in tenda al
bivacco pronto a post produrre e inviare in un istante alle redazioni gli scatti realizzati
durante la giornata.
In quel periodo ho completato il mio passaggio dalla cinepresa alla fotografia, tornando al
primo, vecchio amore e fondando Milagro, la mia agenzia. Oggi il lavoro sulle piste di tutto il
mondo anche grazie a uno staff di quattro persone che mi accompagnano in questa
avventura che dura ormai da quasi trentasette anni.
Certo, a lavorare nello stesso ambito per così tanto tempo si corre il rischio di cadere nella
noia e nella consuetudine. È questo il motivo che mi spinge a cercare sempre di portare a
casa una foto diversa da quella realizzata un anno prima nello stesso circuito. Ci sono piste
dove potrei essere portato bendato e io saprei comunque portare a casa i miei scatti, riuscire
a trovare un’angolazione nuova o curando quei piccoli dettagli che ti portano a poter
realizzare un’immagine nuova, mai scontata o banale.
Allo stesso modo cerco di raccontare ciò che accade sulla pista senza badare troppo alle
forzature tipiche del fotografo. La ricerca della luce corretta, della luminosità o del colore
giusto è importante, ma non imprenscindibile per trasmettere un’emozione. Piuttosto, credo
che l’aspetto fondamentale nella fotografia di oggi sia avere le idee. Non conta l’attrezzatura
a tua disposizione per scattare un’immagine, conta l’obiettivo che ti imponi di perseguire. Il
tema dell’obiettivo è un concetto valido non solo per chi sta dietro a una fotocamera ma è
allargato a tutti i comunicatori di oggi. Se non hai idea di cosa raccontare fai poca

strada. Piuttosto osserva, ricerca, trova un filone da seguire per poter raccontare qualcosa di
nuovo.
Nel corso degli anni ho sviluppato un ottimo rapporto con tanti piloti, cosa non sempre facile,
ma decisamente più semplice di una volta.
Nel decennio 1990 – 2000 i rapporti con i protagonisti del Motomondiale erano ridotti
all’osso perché mancavano proprio le opportunità per conoscerli al di fuori della pista. Oggi
queste occasioni sono decisamente numerose e questo mi ha permesso di creare con loro
rapporti umani e amicizie non solo con loro ma anche con chi gli sta intorno.
È dalle relazioni che puoi costruire il racconto di una nuova storia che durerà un’intera
stagione. Scoprire le personalità dei piloti per me è fondamentale, perché quando li fotografi
hai bisogno che ti guardino, che ti riconoscano mentre fissano un obiettivo, non devi
rappresentare per loro un perfetto sconosciuto.  Ogni pilota ha un suo modo di comportarsi,
una propria gestualità. Loro parlano con gli occhi e con le mani. Nel mio mestiere ho bisogno
di queste amicizie, ma ci sono anche amicizie in cui la macchina fotografica la metto da parte.
La cosa peggiore che puoi fare con un pilota è chiedergli di posare per un certo scatto.
Bisogna che il pilota ti guardi negli occhi, che capisca che ci sei, e tutto questo può nascere
solo grazie a una sensazione di confidenza. Se tu non hai una relazione con lui non otterrai
mai quella foto che vorresti. Non si ha a che fare con degli sprovveduti, ma al contrario con
professionisti che sanno come parlare, come comportarsi e che comprendono come ogni
occasione sia buona per apparire.
È così che si può fare lo storytelling di una stagione di Motomondiale: con i rapporti umani e
con la fortuna. La fortuna, appunto. Trovarsi al posto giusto al momento giusto. Ma la fortuna
non basta. Per raccontare una storia ci vuole anche altro.
Lo storytelling, per me, sta nella capacità di raccontare un’intera storia attraverso una
singola immagine. E di immagini di questo tipo ne ricordo, tra le tante, due in particolare.
Laguna Seca 2008. Il sorpasso di Valentino su Stoner nella mitica curva del Cavatappi con le
ruote sulla sabbia. Quella è una foto che non racconta solo una stagione, ma una rivalità, una
guerra di nervi tra campioni assoluti. E Valencia 2010. Il coronamento di un sogno. Sette anni
prima Valentino Rossi, alla sua prima gara in Yamaha, vinse il Gran Premio del Sudafrica
contro tutti i pronostici. Tagliò il traguardo e durante il giro d’onore fermò la moto,
l’appoggiò a bordo pista e le diede un bacio. Ecco, quel bacio di Valentino non esiste in
fotografia, è rimasto immortalato solo in un’immagine televisiva.  Ecco, quello scatto
mancato è rimasto per anni un mio rimpianto. Questo pensiero, questo tarlo nella mia testa è
rimasto fino al giorno in cui Valentino decise di smettere di correre con Yamaha per passare
alla Ducati alla stagione successiva.  A Valencia baciò nuovamente la sua moto. Essere
riuscito a catturare quel bacio è stato per me il coronamento di un sogno, la chiusura di una
ricerca nata da un rimpianto di sette anni prima.
Oggi, dopo oltre trent’anni di esperienza nel Motomondiale, mi chiedono sempre più spesso
che consigli mi sento di dare alle nuove leve che vorrebbero seguire il mio esempio. Spesso

dico loro di lasciar perdere, ma mi rendo conto che non sia una gran risposta. Nella
fotografia, come nella vita, bisogna avere costanza, essere determinati e continuare a
provare. In breve, bisogna essere dei martelli.

Credits:
Article: Gigi Soldano & Mauro Farina
Video: Davide Rudari & Simone Rudari
Photo: Martina Padovan

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